Dicono di noi


Je te remercie vraiment de m’avoir fait découvrir « Ils brûlent encore », film qui m’a fort troublé (tellement loin de mes manières de faire) et en même temps énormément plu! Je trouve ça très fort quant à la continuité et l’invention dans l’artificialité et l’allégorie. On sait que le cinéma n’aime pas trop l’allégorie. Ici, je dois dire que c’est très réussi, très convaincant. La fragmentation, les silences, les postures longues, les lenteurs, le principe d’une « narration » comme impossible, brisée, défaite; la beauté des corps et des visages; une gravité qui d’abord dérange puis finit par forcer le spectateur, mais forçage heureux, car nous finissons par partager, si invraisemblable que ça puisse paraître, les situations extrêmes, figées, théâtralisées, mannequinisées, partager quelque chose comme leur nécessité : une insistance signifiante qui ne tombe pas dans la lourdeur démonstrative. Les textes sont beaux. Les cartons très forts. Et j’ai aussi beaucoup apprécié l’usage des archives. Donc, grande surprise et sentiment d’une belle audace qui ne tombe pas à plat. Un film puissant.

 

traduzione:

"Ti ringrazio veramente di avermi fatto conoscere Essi bruciano ancora, film che mi ha profondamente turbato (così lontano dal mio modo di fare) e allo stesso tempo enormemente piaciuto! Lo trovo molto forte quanto a continuità e invenzione nell'artificialità e nell'allegoria. Sappiamo che il cinema non ama troppo l'allegoria. Qui, devo dire che è ben riuscita e molto convincente. La frammentazione, i silenzi, le lunghe pose, le lentezze, il principio di "una narrazione" come impossibile, rotta, disfatta; la bellezza dei corpi e dei visi; una gravità che all'inizio disturba e poi finisce per forzare lo spettatore, ma una forzatura felice, poichè finiamo col condividere, per quanto possa apparire inverosimile, le situazioni estreme, immobili, teatralizzate, modellizzate, condividere qualcosa come la loro necessità: una insistenza significante che non cade nella pesantezza della dimostrazione. I testi sono belli. I pannelli molto forti. E ho molto apprezzato l'uso degli archivi. Dunque, grande sorpresa e il sentimento di una bella audacia che non passa inosservata. Un film potente.
Jean-Louis Comolli

#TFF35 – Essi bruciano ancora, di Arturo Lavorato e Felice D’Agostino

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Il cinema è un corpo organico nella concezione dei due registi calabresi. Essi bruciano ancora, è indissolubilmente legato al breve film godardiano precedente che era In attesa dell’avvento. La loro elaborazione politica prende le mosse dal pensiero di Nicola Zitara – ma anche da tutta quella filosofia meridionale che vede nel “piemontese” il conquistatore – che teorizzava la separazione della Calabria come risposta ai danni e alle sopraffazioni che l’unità d’Italia aveva provocato a questa regione anche in termini di pure depredazione economica. Un pensiero che concepisce un’idea di rivolta e di autonomia, come conseguenza politica di quei fatti, come si intuisce dal titolo di uno scritto dell’intellettuale calabrese, L’unità d’Italia, nascita dii una colonia. In attesa dell’avvento, il breve film che oggi va considerato come preparatorio di Essi bruciano ancora, era completamente costruito su queste idee che costituivano e continuano a costituire anche il tratto principale di un percorso che chiaramente i due registi condividono sia pure in un’ottica di attualità e quindi sganciata da ogni ipotesi puramente separatista.

Essi bruciano ancora, che arriva dopo sei anni da quell’ultimo impegno, è stato un film che quindi nasce da una lunga gestazione, da una altrettanto duratura preparazione e i risultati sono evidenti. Il film di Lavorato e D’Agostino riesce a dominare una complessità storica e teorica attraverso soprattutto un senso di condivisione popolare e ne siano testimoni i set costruiti teatralmente e collettivamente. Il riappropriarsi di una cultura che è stata anch’essa oggetto di depredazione da parte di una politica sempre affamata, è uno dei principi sui quali si fonda il volutamente frammentato film di Lavorato e D’Agostino. Il loro cinema è giunto oggi ad un apice che ora necessariamente sarà impegnativo, oltre che doveroso superare, e questo film ha l’aria di rappresentare il suggello ad un percorso culturale e politico che i due autori perseguono ormai da anni, sin dal loro esordio, proprio sugli schermi del Festival di Torino e proseguito, nelle varie declinazioni fino a questo film.

Essi bruciano ancora diventa anche una rilettura della storia da parte della cultura popolare e per questo il film ha anche un’aria di opera collettiva pur restando la responsabilità finale ai due registi e scrittori della sceneggiatura.
La storia sociale più recente della Calabria che parte dalla fallita industrializzazione del crotonese alla rivolta di Reggio Calabria degli anni ‘70 e quella del passato più remoto onnicomprensivamente raccolta sotto il comune denominatore del risorgimento italiano, diventano prove evidenti che confermano il pensiero politico che sta a fondamento del film. Il cinema di Lavorato e D’Agostino si appropria della critica storica antagonista, oltre che profondamente condividerla e costruisce attraverso questi eventi e le ricerche d’archivio, un cinema assolutamente antispettacolare, mai semplice e autenticamente complesso attraverso gli innesti della cultura popolare e non che vi si ritrovano. Un cinema quindi brechtianamente epico nella sua finale costruzione e nel suo impianto originario. Un cinema che si esprime per blocchi che a loro volta possano produrre pensiero e mettano in scena i processi sociali e culturali, inseriti nel quadro della storia e di una sua obbligatoria rilettura. Al contempo arcaico e contemporaneo che non esisterebbe senza una comprensione autentica del passato e della cultura che ha attraversato i luoghi (In amabile azzurro) e non sarebbe comprensibile se non si guardasse ad una disastrata attualità frutto di questi errori della storia e soprattutto di una sua cattiva e deviata, per quanto dominante, interpretazione. È per questa ragione che il cinema di Lavorato e D’Agostino oltre che raccontare i vincitori e i vinti, assume i profili di un corpo organico, perché si nutre di elementi apparentemente estranei al cinema, trasformandoli, dopo una attenta e puntigliosa metabolizzazione, in materiale esclusivamente cinematografico, in pensiero che si fa strada tra le immagini che sembrano a volte sommergere e a volte dare respiro e tempo alla riflessione.

Ci si interroga sul futuro di questi due cineasti così preziosi perché legati ad un’idea di cinema tanto popolare, quanto aristocraticamente distante da ogni attuale comune sentire. Un cinema che diventa davvero prezioso proprio per queste ragioni e che traduce il senso di una rivolta costante e di una riaffermazione della propria cultura, come in pochi altri casi è accaduto. È proprio questa concezione che seppure rara, è ancora vivacemente presente come anticorpo sociale, che il cinema dei due registi calabresi non appartiene ad una sola cultura, ma riesca a raggiungere le sensibilità anche più lontane, la dove ci sia la disponibilità a confrontarsi dialetticamente con la storia. In questo senso Essi bruciano ancora, ma anche i lavori precedenti della coppia di autori, diventa un costante punto di riferimento politico e culturale, un esempio, ormai rarissimo, di come le immagini possano tradurre le idee e trasformarle in materia vivente, in costante e quotidiana pratica del pensiero, in germe che ora deve morire per germinare altri frutti e altre immagini e quindi altre idee.

 

http://www.sentieriselvaggi.it/tff35-essi-bruciano-ancora-di-arturo-lavorato-e-felice-dagostino/

 


 

 

 

     Essi bruciano ancora

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Con Essi bruciano ancora Felice D’Agostino e Arturo Lavorato ripartono dalla Calabria per cercare di narrare la storia di una sottomissione culturale e politica che viene oggi celebrata come Unità d’Italia. Un lavoro affascinante e stratificato, ma non privo di contraddizioni. In Onde al Torino Film Festival.

L’invasore sabaudo

Accanto alla storia ufficiale del Risorgimento, che vede nella creazione dell’Italia unita una rivoluzione portata avanti in nome della civiltà e del progresso, ce n’è un’altra, rimasta a lungo ai margini, semiclandestina. Essi bruciano ancora cerca di dare voce e corpo a questa storia parallela, in cui l’Unità d’Italia non è altro che un processo di colonizzazione del Meridione, ancora oggi in corso. [sinossi]

Il primo dei molti spunti interessanti che rilascia, a volte persino suo malgrado, un film come Essi bruciano ancora, riguarda la sua collocazione festivaliera. Se per Arturo Lavorato e Felice D’Agostino la presenza al Torino Film Festival segna quasi un ritorno a casa (il duo vinse il premio per il miglior documentario nel 2005 con Il canto dei nuovi emigranti, ispirato da una poesia di Franco Costabile), il tema attorno al quale ruota l’intero film può apparire senza troppe forzature come un grido di battaglia lanciato contro quello che fu il regno Sabaudo. I morti ammazzati, i morti per fame, i morti per stenti che lasciò dietro di sé l’Unità d’Italia, con quella spinta solo apparente verso un progresso in realtà irrealizzabile in quei modi e con quelle forme, tornano in vita per reclamare il loro diritto all’odio, alla contrapposizione, alla lotta contro un potere egemonico che negli ultimi centocinquanta anni e passa ha visto il sud dell’Italia come un territorio occupato, annesso a un regno del nord con cui aveva ben poco a cui spartire, perfino una lingua dissimile nonostante la matrice comune. Non usano mezzi termini, D’Agostino e Lavorato – va comunque fatto notare come Essi bruciano ancora sia la sintesi inevitabilmente in parte squilibrata di un lavoro ben più collettivo, che ha messo in moto visioni e intelligenze di una terra troppo spesso costretta a un silenzio martoriato e sottopagato – e compiono una scelta netta, che non può che creare elementi di dibattito: l’Unità d’Italia, dicono, fu una colonizzazione, un massacro di povere genti, lo sfruttamento di manodopera là dove (in Piemonte) quest’ultima stava venendo meno. Nulla di poetico o romantico, ma solo un’esigenza strettamente economica. Un’Unità figlia del Capitale, dunque, e delle sue lunghe dita ghermenti.
In quest’ottica anche Giuseppe Garibaldi, sulla cui schiena di pietra si apre Essi bruciano ancora, non può che essere un connivente o, nella migliore delle ipotesi, un romantico combattente che non capì di essere stato usato a uso e consumo di una forza crudele e superiore a lui e ai suoi fedeli sodali. A Garibaldi D’Agostino e Lavorato preferiscono il piglio battagliero e mai compromissorio di Carlo Pisacane, che morì lottanto e firmando con gli altri ventiquattro cospiratori questo celebre inno alla lotta: «Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiaramo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de’ martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s’immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all’Italia, benché sino a oggi ancora schiava».

Si può facilmente rimanere spiazzati da Essi bruciano ancora, e proprio la sua natura di creatura multi-cefala, costruita attorno alla passione a alle idee di un collettivo di persone, la rende da un lato stratificata e dall’altro vicina allo sbandamento in più di un’occasione. La struttura narrativa, costruita su un’enfasi del dramma che guarda da un lato a “straubismi” e dall’altro a una partecipazione tutt’altro che astratta ma semmai verace e sanguigna, si perde in più di un rivolo e rischia anche in alcune occasioni di andare in contraddizione con se stessa. Ma forse è giusto così. Allo stesso modo il tentativo di creare un’aura internazionalista, leggendo le vicende dell’ultimo secolo in Calabria e nel sud Italia facendo ricorso ai testi di Frantz Fanon, alle poesie di Aimé Césaire, al celeberrimo intervento sul debito africano di Thomas Sankara alla venticinquesima conferenza dell’OUA (Organizzazione per l’unità Africana) di Addis Abeba, nel luglio del 1987, sembra a tratti quasi un retaggio istintivo, privo di una reale profondità.
Ma, ed è giusto ripetersi, va bene così. Il senso di un’operazione complessa come Essi bruciano ancora non è quello di organizzare una contro-storia puntellata di atti, dati, sentenze e memorie. Si vive nel pieno di un pamphlet, di un j’accuse retorico che ha bisogno solo del popolo, dei volti del popolo e delle voci del popolo, per trovare il proprio significato. Piangendo il sangue versato da armi piemontesi, il film piange a sua volta sangue, si fa sangue, scorre e va al cervello. Un atto di ribellione che parte di pancia, e costringe il cervello ad assecondare questa necessità.

Letto in quest’ottica Essi bruciano ancora, pur con le sue ingenuità, i suoi buchi, la sua posizione preconcetta – la questione meridionale meriterebbe un approfondimento storico, antropologico, sociale ed economico ben più strutturato, anche in un’ottica puramente guerrigliera; in tal senso mettere l’uno di fronte all’altro questo film e Noi credevamo di Mario Martone, per rimanere all’ultimo decennio, è operazione da ritenere quasi indispensabile –, acquista un valore di primaria importanza, e può perfino dimostrarsi una delle opere più interessanti venute alla luce nel cinema italiano dell’ultimo anno. Un’opera in cui è necessario credere, ma può essere altrettanto fondamentale creare una dialettica, per edificare, di sovrastruttura in sovrastruttura, il primo passo verso una rivoluzione che non liberi solo il sud d’Italia e del mondo. Ma che liberi tutti.

Raffaele Meale

https://quinlan.it/2017/11/29/essi-bruciano-ancora/

 


http://www.fatamorganaweb.unical.it/index.php/2017/12/04/non-bruciano-le-storie-lavorato-dagostino/

 

Non bruciano le storie

 

di ANTONIO CAPOCASALE

 

 

La Storia, per progredire, ha bisogno (anche) che si producano storie. Una comunità che voglia avere una Storia duratura, dovrà cioè costruire narrazioni, ideologie, miti, attraverso i quali veicolare sistemi di valori, pratiche e identità culturali la cui condivisione ratifichi la coesione della comunità stessa. Ma come la Storia, anche le storie vengono scritte dai vincitori. Forse non però una volta per tutte, né per tutti, se i vinti, “bruciando ancora”, avrebbero da dire una loro versione.

Ecco che Essi bruciano ancora di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato, presentato in questi giorni al Torino Film Festival, si misura con una presa di parola dalla parte dei vinti dell’Unità d’Italia e della sua storia successiva: non gli Asburgo o i Borbone, ma la popolazione meridionale, marginalizzata e sottomessa con violenza da un processo di unificazione attuatosi come annessione al Regno Sabaudo.

Il titolo del film riprende una comunicazione inviata dal colonnello Negri al generale Cialdini per informarlo del massacro compiuto dal Regio Esercito contro la popolazione civile del Beneventano, per vendicare in modo esemplare l’assassinio di soldati sabaudi ad opera di briganti. Nell’alludere in maniera indiretta a un episodio sanguinoso, il film restituisce una lunga storia di eccidi e miseria come prezzo pagato dal Sud d’Italia visto dal Regno Sabaudo come terra da annettere. La conseguenza di una tale politica, che nel film è letta come colonizzazione, ha fatto sì che nei colonizzati ancora bruciassero malcontento e contrapposizione violenta tra il centro dello Stato e ciò che storicamente è stato reso sua periferia.

La complessa struttura del film, che accosta in un montaggio intermediale immagini riprese ex novo dai due autori, materiali di repertorio, immagini fisse, scritte in sovrimpressione, si pone già, nella sua eterogeneità, come attraversamento, lacerazione, rimessa in discussione della Storia. Alle immagini a macchina fissa di pescatori e popolane silenti ripresi frontalmente, nella Calabria contemporanea, si sovrappone l’audio di decreti dell’esercito unitario, ma detti da un megafono: è come se la ricostruzione storica di un allora si attuasse coi segni della realtà quale è ora, come se il passato riverberasse sul presente. Ma se del passato mancano i segni, le immagini, eccoli restituiti da inquadrature riferibili alla contemporaneità, che mostrando i vinti nell’oggi dicono dei vinti di ieri, taciuti e messi in ombra da una Storia che attestava solo “sorti magnifiche e progressive” e solo di quelle ha prodotto immagini e narrazioni.

All’effetto straubiano di scene così costruite se ne alternano altre in toni brechtiano-didattici: in un teatro (con tanto di palco e sipario visibili) si rappresentano gli scontri tra esercito sabaudo, nobili e clero da una parte e masse popolari dall’altra. La lettura di diari e testimonianze storiche tra tetri edifici in cemento armato e mattoni a vista, tanto ricorrenti nel paesaggio meridionale, caratterizzati dalla stessa incompiutezza del progresso storico e processo unitario, i filmati di repertorio riguardanti le riforme agrarie del secondo dopoguerra (e le sue promesse disattese), i moti di Reggio Calabria, fanno via via affiorare l’aspetto drammatico di una non-Unità.

Trovano in tal modo spazio le immagini mancanti della Storia, i fuori campo dei resoconti ufficiali, attraverso una pratica simile a quella che Dario Cecchi ha individuato come una delle più distintive di certa recente produzione documentaria e sperimentale: la restituzione di una realtà storica di cui mancano documenti è effettuata per mezzo di immagini che si offrono evidentemente come costruzione finzionale (gli intermezzi nel teatro, volutamente naif), seppure a partire da verità e flagranza di volti e voci del popolo. Laddove esistono documenti, cioè materiali di repertorio integrati nel film, essi sono recuperati, rivissuti, rielaborati nel presente, di cui si fanno segno.

 

Frammenti eterogenei entrano dunque in relazione tra loro a restituire il quadro di una colonizzazione ancora in atto, dominio subìto anche da chi è oggi il Sud dell’Occidente: gli immigrati di colore nel paesaggio meridionale, l’accenno ai fatti di Rosarno del 2010 accostati alla strage del feudo di Fragalà a Melissa nel 1949, fulminee immagini di Malcolm X, testi di Frantz Fanon e Thomas Sankara contro campagne e marine calabresi, configurano così un’Internazionale delle periferie della Storia. Ciò traspare anche negli inserti musicali: canti popolari o di protesta dialogano con gli interventi di un chitarrista blues, appunto la musica di dominati e colonizzati, e il brano Sometimes I Feel Like a Motherless Child (canto di orfani, come di esuli o migranti), spiritual non a caso già utilizzato da Pasolini per il suo Vangelo meridionale, qui riproposto in una versione più solenne, corale.

Nel film prende corpo una coralità di minoranze, di chi cioè è stato reso minore e periferico da un Potere maggiore e centrale che dettava la Storia. Di fatto, la Storia ufficiale dei maggiori viene al montaggio minorata, nel senso che Deleuze e Guattari attribuivano a tale operazione nel loro testo sulla letteratura minore, che non è solo quella scritta in una lingua minore, ma anche il particolare uso di una lingua maggiore da parte di una minoranza, capace di travagliare dall’interno la lingua ufficiale di Stato, di Potere. Il montaggio fa dunque un uso minore di immagini maggiori: smonta e decontestualizza il filmato d’archivio in quanto icona della Storia ufficiale dei maggiori, e lo ricolloca in una struttura che è enunciazione dei minori, tra volti e voci del popolo.

Se l’archivio, inteso secondo la definizione di Foucault, è “legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli” (Foucault 1971, p. 73), nel film le immagini d’archivio sono qualcosa di diverso da quanto prescritto dalla legge, enunciano una storia altra dell’avvenimento, resa da un punto di vista minoritario. Ancora riprendendo Deleuze, nel film “si fa dunque in modo che un enunciato attraversi tutte le variabili che possono intaccarlo nel più breve spazio di tempo. L’enunciato, allora, non sarà altro che la somma delle sue proprie variazioni, che lo fanno sfuggire ad ogni apparato di potere capace di fissarlo” (Deleuze 2002, p. 98).

La cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (il film di Florestano Vancini sulla repressione di Bronte si inserisce, tra altri frammenti, come un glitch improvviso) è qui in definitiva smontare, in un nuovo montaggio, lo story-telling dei maggiori, il loro monopolio della storia.

La versione monolitica dei vincitori colonizzatori è così percorsa dall’eterogeneità di altre versioni dei fatti, problematizzata ed esposta a una verifica incerta della Storia che non è passata né risolta, ma appunto brucia ancora. L’ultimo brechtiano inscenamento, infatti – questa volta però non più in un teatro ma nell’esterno di una piazza – vede proprio una barricata: i colonizzati intendono assumere un ruolo, si fanno appunto attori di un’opposizione oltranzista a quella Storia che li voleva fissati nella parte degli stranieri.

Riferimenti bibliografici
D. Cecchi, Immagini mancanti. Estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità, Pellegrini, Cosenza 2017.
G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002.
Id., F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010.
M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971.

 


Il lungometraggio sarà presentato nella sezione Onde del Torino Film Festival